#4 Il nuovo nazionalismo russo, la nuova élite e Navalnyana
Di marce, saluti romani, icone, zar, operazioni speciali, prigioni e tanto altro
Привет, sono Giovanni Savino e e questa è Russia e altre sciocchezze, newsletter dell’omonimo canale Telegram. Sono state due settimane parecchio impegnative, come già sapete, e ho aspettato che si posasse un po’ di polvere per dedicarmi alla newsletter.
La giornata del 16 febbraio e le settimane a seguire sono entrate di diritto nella storia della Russia dal 1991 a oggi per la scomparsa di Alexey Navalny, morto nella colonia penitenziaria n. 3 di Kharp, al di là del Circolo polare artico. Ne ho scritto molto, e non sono ovviamente il solo, quindi vi sono un po’ di link al riguardo per questa mia personale “navalnyana”:
Una analisi a caldo di quanto successo;
Un pensiero sul corpo di Navalny;
Una riflessione sui funerali;
Ospite di Tempolinea.
In più un podcast con Arianna Ciccone, Maria Chiara Franceschelli e un contributo audio di Marta Allevato; vi ricordo che si terrà a Perugia, nell’ambito del Festival internazionale del giornalismo, il primo Valigia Blu Live, e il 21 aprile assieme a Claudia Bettiol, Andrea Braschayko e Maria Chiara Franceschelli discuteremo di Russia e Ucraina a due anni dall’inizio della guerra.
E ora passiamo a una cosa collegata ma diversa
Una delle principali argomentazioni (se non l’unica) contro la figura di Navalny è stata sottolineare (in molti casi agitare) il suo passato di vicinanza e adesione alle parole d’ordine dell’estrema destra xenofoba russa, senza però indagare poi sull’evoluzione delle sue posizioni: è difficile e molto fuorviante il giochino della lettura delle vicende estere attraverso le lenti deformate della politica italiana, ma qui una categoria che noi dovremmo conoscere, quella di populista, non viene usata nei confronti di una figura comunque fondamentale della Russia dell’ultimo decennio. Dire che Navalny era uno xenofobo fino alla morte avvenuta in galera è inesatto come sostenere che fosse un socialista di sinistra, viste le sue posizioni, assunte dal 2017 in poi, sul piano economico e sociale; quel che conta per un settore importante della società russa è come ha affrontato gli innumerevoli arresti e la sorte in detenzione. Si tratta di un fenomeno non nuovo nella storia russa, si veda Avvakum, il predicatore dei Vecchi Credenti ai tempi delle persecuzioni della Chiesa ortodossa, vi è un passo, molto noto anche tra i rivoluzionari d’inizio XX secolo, intitolato L’arcipretessa sul ghiaccio:
Avvenne che la mia povera arcipretessa, che arrancava un passo dietro l'altro, scivolasse e non potesse più sollevarsi. E un altro sfinito cascò anche lui insieme con lei, tutti e due si puntano sulle braccia ma non hanno forza di alzarsi. Dietro a me, povera donna, mi rimprovera: «Quanto durerà questo tormento, arciprete?». Rispondo: «Markovna, fino alla morte». Al che lei: «Va bene, Petrovič: tireremo ancora avanti». (Da Vita dell'arciprete Avvakum scritta da lui stesso, traduzione di Pia Pera, Adelphi, Milano 1986)
E forse questa dedizione sfiancante, più che fanatica dettata dall’unica possibilità che si vede per uscir fuori dalla situazione presente, spiega molto di più anche il rapporto tra Navalny e la moglie Yulia.
Ma avevo promesso di scrivere del nuovo (in realtà già vecchiotto, ma vabbè) nazionalismo russo, e allora eccoci con la prima parte, che va dal 1985 alla fine degli anni Duemila, più o meno.
Alcuni appunti sulla storia del nuovo nazionalismo russo d’inizio XXI secolo
Parte prima: dalla perestrojka alla Marcia Russa
L’emergere di una nuova vitalità dell’estrema destra russa, repressa nel corso degli anni del comunismo o riuscita in qualche modo ad entrare nelle pieghe della vita culturale e partitica a partire dall’era del disgelo, avviene in concomitanza con la perestrojka. Paradossalmente la prima organizzazione non legata al Pcus a scendere in piazza per la prima volta dagli anni Venti a Mosca è Pamyat (Memoria), formazione antisemita che mescolava a nostalgie zariste suggestioni fasciste e in grado di far da magnete per chiunque si opponesse su posizioni simili nella società russa. Proprio il suo successo, però, è causa della sua fine: l’afflusso di nuovi attivisti, unito alle pressioni del Kgb, furono la causa della frammentazione in tante piccole organizzazioni concorrenti, tutte proclamatesi vere depositarie del verbo, ovviamente ultranazionalista e xenofobo.
Militanti di Pamyat a fine anni Ottanta
Il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto in un contesto in cui all’indebolimento del controllo del partito-Stato son corrisposte la crisi economica e le spinte indipendentiste nelle repubbliche e separatiste all’interno di esse, aveva aperto la strada a una sintesi inedita per certi versi, in cui più che le politiche sociali sovietiche a essere rimpiante erano la grandeur militare e geopolitica da alcuni ambienti vicini all’esercito, e si leggeva la fine dell’esperimento socialista come un’ennesima tappa del complotto eterno proveniente dall’esterno e portato avanti da agenti interni contro la Russia, prima come impero e poi come Urss. La confusione dovuta alla dissoluzione delle strutture del Pcus e del Komsomol, spesso coinvolte già dalla metà degli anni Ottanta in affari a dir poco opachi e con i vertici in molti casi riciclatisi come “imprenditori”, aveva contribuito alla diffusione di idee di ogni genere, rappresentate dal giornale Den’ (Giorno), poi riaperto come Zavtra (Domani), diretto dallo scrittore Aleksandr Prokhanov, ancora oggi attivo alla direzione della testata. Anche Aleksandr Dugin prova ad emergere in questo periodo, dove è molto attivo nella creazione e nel consolidamento di legami con il neofascismo europeo, senza però riuscire a guadagnarsi una posizione simile a quella di Prochanov. La nascita del Fronte di salvezza nazionale, organismo che avrebbe dovuto coordinare le azioni delle forze nazional-patriottiche e della sinistra neo-stalinista, avvenuta nel 1992, non riesce però a far da propulsore alla nascita di un vero schieramento in grado di incidere: nel primo congresso viene proclamata la riappacificazione tra i Bianchi e i Rossi, a settant’anni dalla fine della guerra civile, e la divisione dei compiti, con gli esponenti di destra a far da ideologi e i dirigenti comunisti a portar le masse, ma il tutto dura poco, già nel luglio 1993 si arriva alla frattura. I tricolori imperiali (nero-oro-bianco) e le bandiere rosse, unite suggestivamente nel corso di assemblee e manifestazioni, non riescono a fondersi in un unico vessillo. L’accusa, spesso ripetuta e anche avallata da alcuni esponenti dell’Fsn, di aver scatenato la crisi costituzionale del 1993 a cui seguì il bombardamento del Soviet supremo, è priva di fondamento. Diverso è il caso del Partito nazional-bolscevico fondato da Eduard Limonov e Aleksandr Dugin nel ‘93, e merita un testo a parte, per la natura complessa del movimento, dove la controcultura, il ribellismo misto a disagio giovanile, l’estetica nazista, le rivendicazioni irredentiste e molte posizioni d’estrema sinistra, hanno costituito un unicuum forse a livello globale.
Un momento del congresso fondativo del Fronte di salvezza nazionale, 1992
Cosa abbiamo all’alba degli anni Duemila? L’estrema destra russa si trovava a seguir sempre più le tendenze presenti in Occidente, con la crescita impetuosa dei gruppi neonazisti nel paese, legati, in modo organico o meno, alle reti globali del White Power: un avanzamento importante, che ebbe l’effetto di condizionare ulteriormente il nazionalismo russo, dove già suggestioni provenienti dall’esperienza del Terzo Reich e dalle teorie razziste si erano sedimentate negli anni Novanta. La violenza di strada, già sdoganata negli ultimi anni sovietici con le bande criminali, diventa la principale agenda politica di giovani teste rasate, con accoltellamenti, risse, assalti contro studenti di colore, immigrati dell’Asia Centrale, omosessuali e attivisti antirazzisti. La presenza nelle curve degli stadi russi permette la crescita del consenso, con la sussunzione di simbologie e riti neonazisti: chi scrive è stato nel 2015 a vedere Dinamo Mosca – Napoli, dove le sciarpe indossate anche da tifosi comuni dei biancazzurri, un tempo squadra del Kgb, erano corredate da una candida croce celtica, un aneddoto piccolo e incolore rispetto alle violenze commesse nelle strade moscovite nel corso degli anni Duemila, ma che permette di capire la penetrazione delle idee xenofobe. Il successo è orizzontale, e ad unire tifoserie spesso acerrime nemiche è l’adesione da parte degli ultras alle parole d’ordine razziste, sintetizzate nel coro dello Zenit San Pietroburgo “no a giocatori neri nella nostra città bianca”. Nel 2002, a seguito di un pogrom antiarmeno dovuto a una rissa in cui erano coinvolti russi e armeni in un bar nella città di Krasnoarmeysk, a una quarantina di chilometri da Mosca, viene costituito il Movimento contro l’immigrazione illegale (Dpni), il quale subito assume una connotazione chiara sin dal simbolo, una croce celtica nera capovolta. Il Dpni agisce unendo alle manifestazioni, spesso con risvolti violenti, la collaborazione con strutture del potere russo: Nikolay Kuryanovich, deputato del Partito liberal-democratico russo (Ldpr) di Zhirinovsky, patrocina le iniziative del Dpni e assume alcuni militanti come propri collaboratori (e viene espulso dall’Ldpr); il tema dell’immigrazione “incontrollata” diventa un refrain televisivo; l’Amministrazione presidenziale guarda alla xenofobia come una ulteriore leva per affermare il proprio controllo sulla società russa. Come ammesso dallo stesso Aleksandr Belov-Potkin, leader del Dpni, la sua organizzazione aveva ricevuto sostegno logistico e finanziario da Nashi, formazione giovanile sorta su idea di Vladislav Surkov, all’epoca figura chiave dell’Amministrazione presidenziale; un rapporto, quello tra estrema destra e autorità, parecchio controverso e con episodi molto particolari, di cui la Russkij marsh, la Marcia russa, è un esempio che merita due parole prima di chiudere la prima parte.
4 novembre, l’estrema destra russa in marcia
Dopo che nel 2005 venne scelta come data festiva per rimpiazzare il 7 , anniversario della rivoluzione d’Ottobre, giornata diventata negli anni eltsiniani “della concordia e riappacificazione”, il 4 novembre, che doveva ricordare la cacciata delle forze polacche da Mosca nel 1612, da subito venne utilizzato come appuntamento annuale per le manifestazioni delle organizzazioni nazionaliste, neonaziste e neofasciste, unite dal marchio della Marcia russa, la Russkij marsh.
I principali promotori della Russkij marsh sono il Dpni e la Slavyanskij soyuz (SS, una sigla a caso), quest’ultima nata dalla frammentazione della Russkoe natsionalnoe edinstvo (Unione nazionale russa), prima organizzazione apertamente neonazista nel paese, ma immediatamente si affiancano anche altre formazioni e personalità, come il Movimento eurasista internazionale di Aleksandr Dugin, il Movimento sociale russo di Konstantin Krylov, il leader neozarista Sergei Baburin e i deputati del partito Rodina, di cui scriverò poi a parte, Dmitry Rogozin, Viktor Alksnis, Andrei Savel’ev oltre al già citato esponente dell’Ldpr Kuryanovich.
La marcia chiamava alla raccolta migliaia di militanti in varie città della Russia, uniti sotto il tricolore imperiale, e la partecipazione vedeva teste rasate, intellettuali neofascisti, ultras, saluti romani, icone, in una sorta di caleidoscopio unito dalla xenofobia, riassunta nello slogan “La Russia ai russi” e nei frequenti incidenti a sfondo razziale che avvengono nei giorni attorno alla manifestazione. La forza di mobilitazione della destra estrema è tale da riuscire a egemonizzare anche le pratiche e le rivendicazioni politiche dei movimenti legati direttamente al potere come Nashi e Molodaya Rossiya (Giovane Russia), che spesso vengono usati da dirigenti più scafati provenienti dal mondo neonazista per operazioni particolari, come l’organizzazione di una iniziativa alternativa alla Marcia russa il 4 novembre 2009 in piazza Bolotnaya, a due passi dal Cremlino, conclusasi con un concerto del gruppo musicale Kolovrat, idolatrati dalla scena per canzoni come Moskovskie britogolovy (Teste rasate moscovite), Geroi ROA (Gli eroi dell’Armata russa di liberazione, formazione collaborazionista della Seconda guerra mondiale) e Pesnya kazakov Verkhmata (Canzone dei cosacchi della Wehrmacht), un repertorio poco in sintonia con la celebrazione della vittoria sovietica del 1945. Qui una canzone a dir poco originale, eh, Anti/antifa, cantata in quell’occasione.
Un momento del concerto del 4 novembre 2009 a piazza Bolotnaya
Artefice dell’iniziativa è un gruppo, Russkij obraz, diretto da Ilya Goryachev, all’epoca giovane storico specialista di Serbia, attivo nelle campagne a difesa di Radovan Karadzic e Ratko Mladic: l’idea alla base del gruppo era di raccogliere attorno all’omonima rivista intellettuali d’area per creare una classe dirigente in grado di esser pronta appena si sarebbe presentato il momento; a favorire la creazione dell’occasione giusta era la Boevaya organizatsiya russkikh natsionalistov, BORN, pensata come ala militare per fronteggiare i militanti antifascisti con ogni mezzo. E sarà il leader di BORN, Nikita Tikhanov, a uccidere Stanislav Markelov e Anastasiya Baburova il 19 gennaio 2009 nel centro di Mosca: Markelov, avvocato con una lunga militanza antifascista a sinistra e difensore degli ultimi, e Baburova, giornalista di Novaya Gazeta che si occupava dell’estrema destra, erano visti come acerrimi nemici dai nazionalisti russi, alcuni dei quali portarono una bottiglia di spumante sul luogo del delitto il giorno dopo, mentre uno degli esponenti di Russkij obraz e già addetto stampa della Marcia russa del 2007, Evgeny Valyaev, poi riciclatosi come analista geopolitico, scriveva: “due russofobi sono stati spediti all’inferno”.
Una delle commemorazioni di Stanislav Markelov e Anastasiya Baburova, 19 gennaio 2012
La Marcia russa, nonostante i conflitti interni all’area, riesce fino al 2014 a essere il principale appuntamento dell’estrema destra e allo stesso tempo a rendere nazionalisti e neofascisti forze con cui fare i conti, e, addirittura, provare a coinvolgere in laboratori politici, dagli ambienti istituzionali fino a quelli d’opposizione, come testimoniato dalla partecipazione di Alexey Navalny ad alcune edizioni d’inizio anni Dieci. Durante le proteste contro i brogli elettorali per il rinnovo della Duma nel 2011 vi saranno in piazza anche i tricolori imperiali e un settore, autodefinitosi nazional-democratico, proverà a sviluppare un lavoro nella galassia anti-putiniana, ma saranno l’Euromaidan in Ucraina e la successiva annessione russa della Crimea a dividere l’estrema destra e di fatto a porre fine all’esperienza della Marcia russa. (continua…)
Dalla guerra sta nascendo una nuova élite?
Vladimir Putin dallo scorso autunno ha a più riprese sottolineato come nel paese si stia formando una nuova élite, patriottica, espressione dei valori tradizionali e che vede nei combattenti al fronte la punta di lancia. Non è semplice retorica, come ha già individuato Aleksandra Prokopenko lo scorso settembre per Meduza, perché è la ricerca di un nuovo equilibrio all’interno del sistema di potere, basandosi su un gruppo nuovo, selezionato sulla base non più delle ricchezze accumulate o del cursus honorem nelle amministrazioni locali e federali o ancora sulle gerarchie dei servizi di sicurezza; un gruppo passato dall’esperienza del fronte e dalla gestione della guerra, abituato a modalità differenti dal tran-tran burocratico degli uffici. In realtà già si registrano tra i funzionari e gli amministratori inviati nei territori occupati e poi tornati in posizioni di governo situazioni molto particolari, con toni del tipo “qui sono il comandante e voi siete dei sottoposti”. Nella relazione all’Assemblea federale del 29 febbraio 2024 Putin ha annunciato la creazione di un nuovo programma, Vremya geroev (Il tempo degli eroi), sulla falsariga della Scuola dei governatori attiva già da qualche anno presso l’Accademia presidenziale: e infatti l’organizzazione è stata assegnata proprio all’ateneo. Il programma è indirizzato a formare i militari al fronte o in congedo per assumere posizioni dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche e nelle industrie statali, un passo particolare, perché vedrebbe l’inserimento di decine di migliaia di quadri abituati alla disciplina e al comando, in una possibile militarizzazione ulteriore della società; l’incognita in tutto questo è come una soluzione del genere non possa non sfociare in una crescita della polarizzazione nel paese tra sostenitori della guerra, ad essa legati da una serie di benefit, e oppositori, polarizzazione nella quale l’ampia zona grigia dovrà giocoforza fare delle scelte.
Cose che ho letto, ascoltato e che mi sono piaciute in questi giorni
Lucia Bellinello ha ospitato Gian Piero Piretto per parlar di funerali, indovinate il perché…
Mara Morini su Domani, Luigi De Biase e Maria Chiara Franceschelli su Il Manifesto hanno scritto articoli sempre sul tema (ah, assieme a Federico Varese Maria Chiara ha scritto questo);
Claudia Bettiol ha scritto qui di Transinistria, invece Diana Mihaylova si è dedicata a riscoprire un capolavoro di Andrei Tarkovskij, L’infanzia di Ivan;
Osservatorio Russia si occupa degli armeni del Nagorno-Karabakh, abbandonati da tutti.
Comunicazioni di servizio
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E il 14 marzo alle 10:00 all’Aula Cataloghi del Dipartimento di studi umanistici della Federico II c’è questo evento con tre grandissimi studiosi
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