Привет! Sono Giovanni Savino e questa è Russia e altre sciocchezze, newsletter dell’omonimo canale. Sono impelagato in una serie di scadenze che, se andranno in porto, mi condurranno in giro e spero a vederci dal vivo.
Di cosa parliamo in questa uscita:
1. Put’ domoj – la strada di casa: come le donne dei mobilitati sfidano il clima di guerra
2. Nadezhdin non è stato ammesso alle elezioni, e ora?
3. La noiosa lezione di storia di Vladimir Putin a Tucker Carlson
4. Novità in libreria e non solo
Una delle domande più frequenti sulla società russa è “perché i russi non protestano?”, una domanda spesso posta come verità indiscutibile, sia sui social che sui media, soprattutto nei segmenti italiani. Una leggenda nera difficile da sfatare, se si contano quanti articoli sulle proteste nella Federazione Russa son stati scritti da chi un pochino segue la politica interna di quel paese, ma ci sono certe definizioni tranchant autoconsolatorie, come se avere una specie di Mordor con tanto di nazgul, orchi e altro potesse giustificare posizioni xenofobe dipinte di lotta per la democrazia. A contribuire alla falsa realtà della mancanza di movimenti di alcun genere nel paese è anche parte delle opposizioni, che ritiene i propri concittadini più o meno degli schiavi o, come mi è capitato di sentire e leggere più volte, “monnezza biologica” (definizione usata da altri per gli immigrati dall’Asia centrale).
In realtà in Russia vi sono settori della società che protestano, anche se numericamente le cifre possono sembrare insignificanti, ma vanno analizzate per comprendere meglio le dinamiche in atto e in prospettiva, in un contesto molto particolare, dove si intrecciano apatia, disillusione, repressione e arresti. Basterebbe citare i 19.854 fermi per aver partecipato ad azioni contro la guerra dal 24 febbraio 2022 (di cui almeno 15.000 nei primi mesi del conflitto), ma nella newsletter di questa settimana affrontiamo un caso particolare, il movimento delle donne dei mobilitati, per analizzare come e perché si organizza e quali sono le conseguenze delle azioni e la risposta delle autorità.
Un po’ più faticoso di una serie di tweet su X, spesso unica produzione di una categoria di esperti tanto in voga in tv e sui social, ma amen – come scrisse uno di questi follower per rimproverarmi, sono troppo attento ai dettagli.
Quando leggo le “espertate”
Ma passiamo alle cose serie, forza.
Put’ domoj – la strada di casa: come le donne dei mobilitati sfidano il clima di guerra
Il 7 novembre 2023 sembra una giornata come tante negli ultimi anni a Mosca in piazza della Rivoluzione, alle spalle del monumento a Karl Marx: dal 2017 lì il Kprf, il Partito comunista della Federazione Russa, tiene la celebrazione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. Però al rituale appuntamento del partito di Zyuganov si presentano alcune donne, una trentina, età inferiore ai trent’anni, con dei cartelli scritti a mano: “restituite i padri ai figli!”, “i mobilitati devono tornare a casa!”, “la giustizia è la smobilitazione!”. Nel giro di pochi minuti la polizia si avvicina alle donne e chiede di togliere i cartelli, Zyuganov, avvicinatosi assieme al deputato Viktor Golubev, promette di far qualcosa. Dodici giorni dopo, il 19 novembre, a migliaia di chilometri dalla capitale, a Novosibirsk, un gruppo di parenti, in gran parte donne, riesce a ottenere un incontro con rappresentanti delle autorità locali, ritenuto dal vicepremier regionale Andrey Klyuzov “molto produttivo”, senza però specificare quali fossero gli impegni presi nei confronti del sostegno alle famiglie dei mobilitati. Qualche giorno dopo, il 23, a Pietroburgo altre ragazze provano a farsi sentire dai deputati di Russia Unita, ma senza successo.
La prima azione pubblica di Put’ domoj, il 7 novembre 2023 a Mosca
Quel che si è presentato sulla scena in quel mese che annuncia l’inverno è stato un movimento per certi versi inedito rispetto al passato recente russo, con alcuni tratti comuni con le lotte ambientali locali per l’orizzontalità, ma nei suoi aspetti fondamentali totalmente altro, perché sorto senza l’ausilio di esperienze pregresse di attivismo. Le donne di Put’ domoj – la strada di casa, nome del canale Telegram e poi del movimento – si son trovate, da mogli, madri, sorelle, inizialmente nelle chat per discutere di quali prodotti, vestiti, stivali, equipaggiamento avessero bisogno i propri uomini, raccogliendo soldi per le necessità di ogni tipo: fatto che spesso passa inosservato, i soldati dell’esercito russo spesso devono provvedere da soli o con l’aiuto delle famiglie all’acquisto di provviste, indumenti pesanti, mirini a infrarossi, droni e così via. Una pressione economica non da poco, nonostante gli stipendi e i pagamenti generosi previsti per i militari impegnati al fronte, e fattore di ulteriore stress per donne spesso sole, soprattutto se si pensa alle mogli lasciate a casa con uno o più figli a cui badare. Ed è proprio da loro che è partita l’iniziativa di spostare la discussione su un altro piano, dall’essere sostegno al fronte a rivendicare il ritorno a casa dal fronte, ponendo apertamente la domanda sussurrata nella società russa: quando finirà l’operazione speciale militare? Inizialmente a essere predominante è stato il risentimento verso chi non era stato mobilitato, come racconta in uno dei reportage apparsi in questi mesi una delle mogli: in estate non poteva far a meno di osservare i ragazzi in spiaggia, contarli e pensare “abile, abile, abile… e allora perché mio marito non torna dallo scorso ottobre?”. L’insoddisfazione per la mancata rotazione e per gli avvicendamenti al fronte promessi ma mai avvenuti è quindi sfociata in una posizione di contrarietà a una guerra di cui il senso sfugge ma se ne vedono gli effetti immediati: l’assenza dei mariti, dei figli e dei fratelli, o il loro ritorno a casa, mutilati nel corpo e nell’animo se non, cosa ben peggiore, in una bara di zinco.
Un momento dell’appuntamento del 4 febbraio 2024
Le modalità scelte per far sentire la propria voce sono originali, perché riescono a mettere in contraddizione le autorità, come la deposizione dei fiori al Milite Ignoto a Mosca e ai monumenti ai caduti della Grande guerra patriottica (com’è nota la Seconda guerra mondiale in Russia) in altre città. In silenzio, il capo coperto da uno scialle bianco che richiama (forse senza saperlo) le madri di Plaza de Mayo, in fila le donne lasciano dei garofani rossi per poi andar via, seguite da altri parenti e simpatizzanti. Arrestarle diventa a prima vista difficile: come si fa a metter le manette a chi onora i caduti? Questa difficoltà si è vista anche domenica 4 febbraio, cinquecentesimo giorno dall’inizio della mobilitazione, quando nella capitale russa circa trecento tra donne del movimento e sostenitori si sono incontrati ai Giardini d’Alessandro per deporre i fiori, attorniati da giornalisti presto fermati dalla polizia e poi rilasciati dopo che si era formata una piccola ma decisa folla attorno al commissariato di Kitaj-gorod per chiedere di liberare i cronisti. L’itinerario prima però ha visto una sosta al comitato elettorale di Vladimir Putin, dove son state lasciate petizioni al candidato: per rivolgersi al presidente, è stato detto alle manifestanti, bisogna recarsi alla segreteria apposita, in una sorte di sdoppiamento del leader russo. Gli appuntamenti continuano a radunare sempre più gente, come si è visto domenica 11 febbraio a Mosca, e, come avvenuto nel caso delle code per la sottoscrizione della candidatura di Nadezhdin, consente una riflessione sulla ricerca di canali di protesta che non facciano rischiare la galera: al momento non sono previsti articoli né leggi e si utilizzano questi momenti per esprimere il proprio disaccordo. Come evolverà e se crescerà la capacità delle donne dei mobiki, come vengono chiamati un po’ bruscamente gli uomini mobilitati, lo vedremo nel corso di questa primavera; di sicuro si tratta di un ulteriore effetto collaterale della guerra voluta dal Cremlino.
Nadezhdin non è stato ammesso alle elezioni, e ora?
Avevo già scritto nel canale Telegram che tra le due variabili, la “pillola rossa” e la “blu”, ovvero non ammettere o meno Boris Nadezhdin alle elezioni, vedevo come quasi certa la prima, e non per la figura del candidato stesso, ma per quello che ha iniziato a rappresentare per un settore della società russa. Non vi sono state proteste di piazza, né tantomeno il mancato candidato le ha chiamate, e credo che questo elemento rafforzi quanto scritto sopra sulla necessità di trovare spazi sicuri senza dover subire la repressione. Attenzione però a leggere la mancata registrazione in termini esclusivamente di contrapposzione a Vladimir Putin, perché si tratta di una analisi superficiale e affrettata: il reale problema di una candidatura di Nadezhdin risiedeva nella possibilità di mettere a nudo lo scenario costruito in questi anni; un suo secondo posto avrebbe messo in discussione l’architettura stessa del sistema russo, dove i partiti presenti alla Duma (e dipendenti dall’Amministrazione presidenziale) garantiscono la legittimità dei giochi elettorali. Una prospettiva in grado di aprire ulteriori varchi a contraddizioni sociali e politiche.
Boris Nadezhdin con le firme al Comitato elettorale centrale
Vladislav Davankov, vicepresidente della Duma e candidato alle presidenziali per Novye Lyudi, ha offerto a Nadezhdin di includere parti del suo programma nella sua campagna, e secondo quanto scritto dal Kommersant vi sarebbe in ballo un possibile accordo anche sulle elezioni alla Duma cittadina di Mosca del settembre 2024 e per le parlamentari del 2026, con l’assenso dell’Amministrazione presidenziale, pronta a “concedere un premio”, nelle parole di una fonte anonima, se le azioni del mancato candidato si limiteranno alle vie “legali” (cioè al ricorso alla Corte costituzionale). Una trattativa opaca, non c’è dubbio, ma chissà se non possa portare a conseguenze inattese, come una imprevista crescita nei sondaggi di Davankov: certo, si può sempre ottenere il risultato previsto dall’Amministrazione presidenziale, però allo stesso tempo i segnali di una situazione sempre più complicata potrebbero divenire tali da aprire nuovi ragionamenti.
La noiosa lezione di storia di Vladimir Putin a Tucker Carlson
Se c’è una cosa in cui gli americani continuano a essere maestri, è la creazione dell’attesa per lo spettacolo, e quando è stata annunciata la pubblicazione dell’intervista di Tucker Carlson, il giornalista diventato sia anello di congiunzione tra alt-right e conservatorismo statunitense che opinion leader, a Vladimir Putin vi è stata una certa attesa. Bene, arrivati alla mezzanotte del 9 febbraio, pensando “it’s showtime”, ci siamo ritrovati all’ennesima lezione di storia nella personale interpretazione putiniana, in cui si ribadisce sempre l’illegittimità storica dell’Ucraina in quanto non esistente a differenza della Russia, ritenuta unica vera discendente della Rus’, una incursione nel passato che ha spiazzato Carlson, il quale più volte ha provato a riportare il discorso sull’attualità, e il clou di questa prima parte è stato raggiunto con il dono di una cartellina con le riproduzioni di alcuni documenti storici, tra cui la lettera dell’atamano Bohdan Chmel’nyckyj allo zar Aleksej. Quanto possa aver davvero fatto colpo un approccio del genere sull’audience di destra americana, è difficile dirlo, visto che questo tipo di speculazioni storiosofiche poco o nulla dicono a un paese relativamente giovane; forse Carlson si attendeva una conversazione diversa, basata sui valori tradizionali, gli attacchi alla cosiddetta ideologia gender, alla decadenza europea e così via, ma tali aspettative sono andate disattese anche dopo, con una lunga digressione sulla geopolitica russa, condita anche di una valutazione più che positiva di Boris Eltsin (non una novità, anche se spesso qualcuno sostiene il contrario) e di George W. Bush.
Carlson un po’ come Leo in Un sacco bello
A essere invece interessante è quanto detto verso la fine, dove Putin ha detto chiaramente di esser disposto a scambiare il giornalista Evan Gershkovich, cittadino americano in prigione per spionaggio, con un “patriota distintosi per aver liquidato il capo di una banda terroristica”, ovvero Vadim Krasikov, condannato all’ergastolo da un tribunale tedesco per l’omicidio di Zelimkhan Khangoshvili, comandante ceceno durante la guerra degli anni Duemila. Un messaggio diretto, che va inserito anche nel contesto dell’intervista, andata forse sotto le aspettative nonostante le visualizzazioni, ma in grado di poter alimentare l’idea nel suo elettorato di un Putin ancora in grado di essere un importante playmaker su scala globale.
Diventare un meme mi onora
Perché Sanremo è Sanremo, soprattutto in Russia
Dopo giorni dove le polemiche attorno alla kermesse canora, tra parole che non si possono dire (eh, la libertà è sempre soltanto la libertà di chi pensa diversamente, scriveva non una pasionaria da X, ma Rosa Luxemburg) e epiteti territoriali, forse vale la pena spendere due righe sul significato di Sanremo nella tarda età sovietica – oggi un po’ di meno, forse l’ultimo grande fenomeno proveniente dal festival è stato rappresentato dai Maneskin. Lucia Bellinello nel suo podcast Transsib ha ricordato l’esibizione di Alla Pugacheva nel 1987 in riviera, e aggiungo che c’è stato anche un Sanremo in trasferta in quegli anni, nell’86 per la precisione: da Eros Ramazzotti a Mango passando per una divina Milva (co-conduttrice con la Pugacheva, qui tutto lo spettacolo) e la sigla cantata da Loretta Goggi sulle immagini della capitale, c’erano tutti a Mosca, come riportava un trafiletto de L’Unità del 10 aprile 1986.
Ecco il trafiletto
La popolarità della canzone italiana degli anni Ottanta è cosa nota, e nel corso del primo ventennio di questo secolo Pupo, Ricchi e Poveri, Toto Cutugno, Matia Bazar e tanti altri han calcato le scene russe, addirittura la reunion tra Al Bano e Romina è stata suggellata al Crocus city hall della capitale. Temo però che molte delle esibizioni del Sanremo contemporaneo possano risultare sgradite al mood ultraconservatore delle autorità russe…
Novità in libreria e non solo
Segnalo il libro di Marta Allevato, giornalista che ha seguito la Russia vivendoci e facendosi tante domande, uscito per Piemme, La Russia moralizzatrice. Già dal titolo l’autrice solleva una questione fondamentale e che viene indagata in profondità dagli studiosi da un decennio a questa parte, e solo per questo merita.
È uscita anche la raccolta di poesia femminista La mia vagina, curata da Massimo Maurizio, per Stilo editrice, un filone di particolare interesse vista anche la dimensione politica russa di un movimento molto complesso e radicalizzatosi con la guerra.
Invece Lenin a pezzi, di Antonella Salomoni per Il Mulino, si interroga sulla complessità dell’icona dello stratega rivoluzionario dopo la fine dell’Urss oggi.
Già ho scritto di Transsib, podcast di Lucia Bellinello, ma non fa male ripeterlo!
A Macerata vi è un ciclo di lezioni a cura di Andrey Fedotov, invitato dalle fantastiche russiste dell’ateneo.
E, dulcis in fundo, Ksenia Filimonova annuncia un altro corso online di letteratura russa sui grandi romanzi.
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